Antonio Sagredo – Le città di Dio. Poema infernale – Voce di Michele G. Bianchi

Antonio Sagredo – Le città di Dio. Poema infernale »

Non se ne può cavar fuori nulla;
sono problemi assolutamente insolubili.
Che cosa significa la Città di Dio?
Dio non ha una città, ma un Regno, non un Regno,
ma un mondo, non un mondo, ma molti mondi.

Goethe

Le città di Dio
(poema infernale)

Devo sopportare il destino di Dio.

Tutte le religioni mi dissanguano
per i rigori delle loro mortalità.

Non ho l’usanza di perdonare
le infamie,
i plagi terrificanti delle loro ignominie.

Non sanno lo specchio senza confini e senza curvature del Poeta, ma gli hanno rubato la prima e ultima Parola
col virus incancrenito del loro triplice verbo.

L’innocenza originaria fatta a pezzi,
scatenando le quattro apocalissi!

Amo la parola che nel mio cervello
non abbia nulla di divino
e nemmeno il sangue infetto delle loro fedi!
Non un simulacro visibile o invisibile
e nemmeno la potenza infame delle loro infallibilità!

Mi fate schifo!

Scolate pus fideistico
e scagliate anatemi dalle vostre labbra emorroidali.

Ho visto migliaia di bambini girovagare come forzati dèmoni ovunque
con le pistole in mano per le città di Dio – la morte antelucana come compagna – tutta la terra: dalle marce periferie dei sobborghi pustolosi ai centri spietati
e grassi celebrati dai tre culti mentecatti!
Miliardi di orbite deturpate da miliardi di affilati cavalli di Frisia,
carovane di occhi e d’infanzie devastate, rotule piagate e disossate
dai rostri aguzzini di frustate ferrigne,
come se i loro passi fossero maledetti ad ogni trivio
per aver sbavato dalla pelle lacrime scheletriche!

Ah, sognano ancora lo zucchero filato per addolcire gli incubi,
ma c’è polvere di sangue carbonioso sui pali dei patiboli!

Sono posseduto e ossesso dal Tempo che s’incurva!
Almeno in questo Dio non c’entra!
La sua puzza alimenta i miei trionfi razionali.

Ah, jeunesse dorée dai volti squamati,
logorati dalla Grazia perduta!
Bastiglie di tabernacoli, di candelabri, di palme dorate!
Palizzate di trionfanti palinsesti le turrite dottrine:
nastri funebri di neri arcobaleni
per fedeli-infedeli da impiccare!

Sono venuto a patti con la vita dei morti recidivi,
per la mia Parola prima d’ogni vostro verbo!

Avete inquinato il cielo!
Tutte le costellazioni!
L’intero universo sporcato dal vostro alito divino!

Tutte le religioni sono i gigolò della ragione!
Le guerre sono il fallimento di tutte le religioni!

Nerogiallo…
biancogiallo…
mezzaluna…
questi vessilli
dai colori mortali!

Macellarono i cavalli nel giro d’uno sputo dai cappuccini alla marina
e
– non più la lanterna che sbatte sotto il traino, il sapore etilico dell’uva
– non più il volpino latrante e il mio dormiveglia antelucano
– non più i laceranti lamenti delle ruote asmatiche di legno-ferro
sul selciato sconnesso della mia consolare: fatale, palmato oriente!
Il disastro fu compiuto – secco! irrevocabile! – con una rovente scudisciata
che sbarrò le mie infanzie di botto come imposte contro il sole… in cenere
le tradizioni, le dicerie, le superstizioni delle nere donne… al diavolo!
non più i rauchi e striscianti tramonti, le chiacchiere di cortili assonnati,
gli irritanti suoni dei dialetti fin dall’ora antelucana alla sera,
non più le merde, le urine dei cavalli, lo zoccolìo familiare… e le scintille!

La lingua e il silenzio nella casa paterna reclamavano il mio nome originario. Il Tempo aveva già rimosso i propri cardini incurvati dalla ruggine.

Io, fermo, come in moto, atterrito nella stanza dai miei stessi occhi,
miravo generazioni marciare di là dalla finestra con altro movimento.
Avanti… indietro… non capivo a quale spazio e a quale tempo appartenevo.
Io, un vivente recidivo! Il mio capezzale reclamava gli angeli, le Sante votive! Quale Male mi cullava contro i vetri, inchiodato?
Le leggi erano terribili per un errore umano, o divino?

Eretici il cuore e la mia mente: fedeli piloti del mio – fantasticare!
Poesia, vattene, non amo la tua prigionia!

Non so che farmene del sangue di quel calice, delle luci accese
di quei sette candelabri, delle palme dorate che tradiscono l’oriente.
Il mio viaggio non prevede la fine alla stazione Termini dei loro paradisi:
ho ancora il cervello pulsante dei miei Padri Precristiani!

Ho il culto della vita nel presente, non l’inganno di una qualsiasi risurrezione.

Padre, ho paura di questi dei terrestri!
Dei teologi che osano studiare Dio… delle loro scritture,
preghiere, promesse, perdoni!

Ho paura delle guerre, delle loro apocalissi: ossari!

Padre, ho paura che nell’erba rorida non troverò mai più un verso umano!
Ho paura del tuo tradimento non voluto… ho paura…

ho paura che ci sia troppo amore… nel Male!

Antonio Sagredo

Vermicino, 3/4/5/6/9/10/17 ottobre 2006